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La venere di Dolní Vestonice

Repubblica Ceca Dolní Vestonice

CHIMICO, PHD E CERAMISTA

Maddaloni CE Italia

Claudia Altavilla

Nel luglio del 2019 sono stata invitata a tenere delle lezioni di chimica dei materiali ceramici presso la Prima Scuola Internazionale di Scienze Applicate ai Beni Culturali (ISSACH) in Egitto. La scuola, organizzata dall’Università degli Studi Catania (Italia) in collaborazione con la Ain Shams University (Egitto), si è svolta presso il Centro Culturale Copto Ortodosso al Cairo (CCOC). Rivolta a studenti, restauratori e ricercatori universitari, la scuola  ha avuto come obiettivo la formazione scientifica multidisciplinare sulle più avanzate e attuali tecniche di conservazione, diagnostica  e restauro dei beni culturali, di figure professionali che operano in istituzioni Egiziane pubbliche e private quali musei, archivi, biblioteche e siti archeologici. Mentre preparavo il mio intervento, che spaziava dai materiali ceramici alle tecniche antiche e moderne, ho cercato di unire le mie due anime di chimico e di ceramista, affrontando le problematiche non solo da un punto di vista puramente scientifico ma anche secondo un approccio pratico di chi la materia ceramica, le terre, gli smalti, le cotture le sperimenta praticamente sporcandosi le mani. Il primo quesito che mi sono posta è stato quale fosse il più antico reperto ceramico mai rinvenuto, la tecnica utilizzata per realizzarlo, la funzione del manufatto, la presenza o meno di decori, il processo di cottura. Con mia grande sorpresa ho scoperto che non si trattava di oggetti funzionali ossia contenitori ad uso puramente pratico come ritenuto fino ai primi anni del ‘900, ma di oggetti di uso rituale. 

Il Sito di Dolní Věstonice
Il 13 luglio del 1925, durante una campagna di scavi  condotta dal Museo della Moravia e diretti dal Professor Karel Absolon nel sito paleolitico di Dolní Věstonice (repubblica Ceca) ( vedi figura 1), viene rinvenuta tra le migliaia di frammenti e figurine zoomorfe, una scultura di appena 11,5 cm di altezza che seguiva per fattezze e morfologia le caratteristiche delle “veneri steatopigie”[1].  Tali sculture risultano essere le più antiche rappresentazioni della figura umana femminile  strettamente correlate a riti della fertilità e al culto della Dea Madre, sono tipiche del periodo paleolitico superiore e sono state rinvenute in numerosi siti in tutto il mondo e realizzate normalmente in materiale lapideo o in osso[2]. A differenza delle altrettanto famose colleghe, la nostra piccola scultura, nota in tutto il mondo come Venere di Dolní Věstonice, ha una caratteristica che la rende straordinaria, risulta essere infatti il primo reperto ceramico finora conosciuto e per tale ragione è unica nel suo genere. La datazione la fa risalire alla Cultura Gravettiana del Paleolitico superiore (27000-24000 a.C.). La scoperta di tale reperto assieme a numerosissimi altri nel sito paleolitico di Dolní Věstonice ha permesso di retrodatare l’invenzione della tecnologia ceramica di circa 14.000 anni rispetto ai frammenti di vasi rinvenuti nella Cava dello Xianren Dong in Cina[3].

Materiali e tecnica di realizzazione
In seguito ai risultati delle prime analisi chimiche eseguite sui reperti del sito di Dolní Věstonice negli anni 1920’, Karel Absolon[4] (1877–1960), figura di rilievo nello studio dei siti paleolitici della Moravia, ipotizzò, vista l’apparente assenza di allumina e potassa nella matrice delle figurine, che queste fossero state plasmate da una pasta ottenuta mescolando grasso di mammuth, frammenti di ossa, cenere di ossa e loess. Solo nel 1954 Klima[5], sulla base di nuove analisi chimiche quantitative dimostrò la presenza di allumina nelle figurine di animali rinvenute nello stesso sito,  supportando la teoria che questi reperti fossero stati ottenuti da materiale sottoposto a cottura e quindi potessero essere considerate “terrecotte” .
A conferma di tale ipotesi, nel 1989 Pamela Vandiver[6] e i suoi collaboratori pubblicano sulla prestigiosa rivista Science i risultati  delle analisi ottenuti su numerosi altri campioni, stabilendo che il materiale di partenza per la realizzazione di tali straordinari manufatti fosse loess locale, grazie alla comparazione della composizione, alla caratteristiche microstrutturali e alle fasi cristalline presenti sia nel suolo che nei reperti.  Il loess dal tedesco Löss [lœs] è un sedimento di natura eolica dalla granulometria molto fine ed omogenea. Il materiale è generalmente poroso e friabile e poco stratificato. Contiene circa il 20 % di argilla e la restante parte è costituita da sabbia (di natura silicea, SiO2) e terriccio debolmente cementate da carbonato di calcio (CaCO3 ) ed è di colore giallastro per la presenza di idrossido di ferro. L’analisi di diffrazione a raggi X (X-ray Diffraction) effettuata su 3 campioni di loess locale e su 20 frammenti di figurine, confermava la presenza di quarzo (SiO2), illite, clorite, dolomite e anortite in proporzioni simili in entrambe le tipologie di campioni, con eccezione della calcite più abbondante nei campioni di loess. L’apatite, ossia il fosfato di calcio Ca5(PO4)3, la cui presenza sarebbe stata indizio certo dell’uso di polvere d’ossa, non fu ritrovata, escludendo i frammenti d’ossa dalla originaria composizione proposta.
Le analisi chimico fisiche su reperti archeologici non rispondono solo a quesiti come il tipo di materiale usato e la sua provenienza ma anche a domande relative alla tecnica e alla sequenza di realizzazione del manufatto. Un’analisi microscopica della porosità (ossia del rapporto tra i pori e il volume totale del materiale) ha per esempio dimostrato una riduzione dei pori di circa il 50% nella scultura rispetto al loess (materiale grezzo di partenza).  Tale dato è significativo per comprendere se la Venere in questione sia stata ottenuta da un blocco di loess scolpito (tecnica sottrattiva) o da una pasta di loess resa plastica per aggiunta d’acqua e modellata a mano (tecnica additiva) con aggiunta successiva di pezzi al corpo principale e di dettagli. Due campioni di loess lavorati mediante le due tecniche, sottoposti a cottura, hanno confermato l’ipotesi che la statuina sia stata ottenuta da un impasto di loess ed acqua modellato a mano e di aggiunte successive della testa e degli arti modellati separatamente. La grande porosità del loess infatti rende il materiale tal quale, sottoposto a cottura, estremamente fragile, viceversa, l’ottenimento di un impasto con acqua e la successiva modellazione inducono una riduzione dei pori, rendono il materiale più compatto e permettono la diffusione dei sali solubili (ossidi alcalini fondenti) all’interno della pasta modellabile, favorendo la ceramizzazione in fase di cottura. L’analisi della porosità superficiale ha inoltre evidenziato la lavorazione fine della superficie mediante l’uso di utensili per levigarla e sigillarla. Non sono state rilevate tracce di pigmenti e decori oltre ai segni incisi per sottolineare i dettagli.

La cottura
Durante il processo di cottura di un materiale contenente argille, silicati, ossidi e impurezze di varia natura, è possibile osservare una serie di reazioni chimiche irreversibili che portano alla scomparsa di alcune fasi cristalline e alla formazione di nuove fasi a determinate temperature. La presenza e/o l’assenza di queste fasi cristalline è un ottimo indizio per la determinazione del range di temperature alle quali è stata effettuata la cottura di un pezzo. In generale si procede alla cottura del materiale di partenza (in questo caso il loess locale impastato con acqua) e all’analisi XRD (a raggi X) per incrementi successivi di temperatura di 100° C. 
I diffrattogrammi così ottenuti vengono paragonati al campione archeologico in esame fin quando la temperatura di cottura raggiunta porta alla formazione delle stesse fasi cristalline presenti nel manufatto oggetto di studio. Dalle analisi effettuate è stato dimostrato che le temperature raggiunte durante la cottura dei manufatti erano comprese tra i 500°C e gli 800°C, inoltre la particolare composizione del loess locale, in cui la quantità di argilla è relativamente bassa, la presenza dell’ossido di fosforo P2O5 ( 0.6%) si è dimostrato avere un effetto sinergico con gli altri ossidi alcalini presenti, che fungono da fondenti, quali gli ossidi di sodio, potassio, ferro, calcio, magnesio (Na20, K20,  FeO, CaO,  e MgO)  rendendo i manufatti cotti a temperature relativamente basse (500°C) particolarmente resistenti e duraturi, dei veri e propri materiali ceramici. Nel sito archeologico sono state rinvenute due strutture compatibili con dei forni ceramici vista la presenza dei numerosi frammenti presenti nelle vicinanze (figura 3). La prima struttura era una fossa ovale di circa 130 cm x 40 cm con una profondità di 40 cm circa  con una parete rialzata  a forma di ferro di cavallo, la seconda a distanza di circa 40 m dalla prima misurava 1m di diametro per 60 cm di profondità e risultava anch’essa in parte coperta da una parete in loess. Dalle analisi effettuate sui  materiali delle due strutture si è avuta conferma che le temperature raggiunte erano comprese tra i 500° e gli 800°C. 

Studio delle fratture sui reperti per shock termico
Come già riportato all’inizio di questo breve articolo, la Venere fu ritrovata spezzata in due grandi frammenti. Degli oltre diecimila reperti  raccolti solo una figura risulta integra e di piccolissime dimensioni. Tale ripetitività ha suggerito agli studiosi un’indagine più accurata per verificare se la presenza di tali fratture fosse attribuibile a fatti accidentali, eventi atmosferici, shock termici dovuti a imperizia nei processi di cottura o manifattura oppure nascondesse altre cause. Dagli studi effettuati su questo tipo di materiali mediante ripetuti test è stato possibili escludere come cause principali delle fratture: la fessurazione dovuta al ritiro per essiccamento che è estremamente bassa (meno del 2%), le fratture meccaniche per percussione che producono  frammenti più lisci non compatibili con quelle degli antichi reperti, le simulazioni di fenomeni atmosferici di gelo e disgelo ossia repentini sbalzi di temperatura. L’unica causa possibile è lo shock termico intenzionale al quale sembrano essere stati sottoposti tutti i manufatti, che ricordiamo rappresentano animali e divinità come la nostra Venere.
Più che una probabile imperizia di colui che era preposto alla cottura dei pezzi, si deve considerare la possibilità che l’obiettivo non fosse quello di produrre ceramiche durature nel tempo ma che lo shock termico durante il processo di cottura fosse voluto e avesse un significato socio culturale e rituale. La pratica dello shock termico sembra essere supportata anche dalla presenza di pareti attorno alla fossa di cottura che fungerebbero da protezione per coloro che partecipavano al rituale (vedi figura 3). Gli artisti che hanno fabbricato queste piccole sculture volevano realizzare dei piccoli idoli che durassero nel tempo o che facessero parte di un rituale legato al fuoco che aveva finalità propiziatorie o divinatorie in funzione della rottura dei pezzi? Anche se  probabilmente non riusciremo mai a dare una risposta definitiva a questo affascinante quesito, la ripetitività e la diffusione della tecnica in molti siti della Moravia avvalora l’ipotesi del rituale.

L’impronta digitale sulla Venere di Dolni Vestonice
Circa 75 anni dopo il suo rinvenimento, e dopo numerose analisi di varia natura e sempre non distruttive vista l’unicità della scultura, è stata rinvenuta un’impronta digitale impressa sulla parte sinistra della schiena. La dimensione di questa impronta di 3x5mm composta da 7 linee è stata oggetto di uno studio scientifico pubblicato sulla rivista Anthropologie  nel 2002[7]. Gli autori sostengono che l’impronta sia riconducibile a quella di un bambino di età compresa tra i 7 e i 15 anni, difficilmente identificabile con colui o colei che ha modellato la statuina. A me piace immaginare che anche i bimbi del paleolitico fossero estremamente curiosi e toccassero tutto come ai nostri giorni. 

Conclusioni
Come chimico, come ceramista, come studiosa ho la consapevolezza che molto c’è ancora da capire sulla nostra avventura come specie su questa Terra. La conoscenza è un viaggio senza fine che ci permette di indagare il mondo in cui viviamo e di contro noi stessi. Una formazione prettamente scientifica non può escludere un approccio umanistico e viceversa poiché le due visioni si completano in sinergia l’una con l’altra.

BIBLIOGRAFIA
[1] veneri steatopigie (dalle parole greche στέαρ, στέατος, “grasso”, “adipe”, e πυγή, “natiche”, quindi “dalle grosse natiche”) o callipigie (sempre dal greco καλλιπύγος, composto di κάλλος, “bellezza”, e πυγή, quindi “dalle belle natiche”).

[2] Alan F. Dixson, Barnaby J. Dixson, “Venus Figurines of the European Paleolithic: Symbols of Fertility or Attractiveness?”, Journal of Anthropology, vol. 2011, Article ID 569120, 11 pages, 2011. 

[3] Xiaohong Wu, Chi Zhang, Paul Goldberg, David Cohen, Yan Pan, Trina Arpin, Ofer Bar-Yosef, “Early Pottery at 20,000 Years Ago in Xianrendong Cave, China,” Science 29, June 2012, 1696-1700

[4] Karel AbsolonThe Diluvial Anthropomorphic Statuettes and Drawings, Especially the So-Called Venus Statuettes, Discovered in Moravia: A Comparative Study Artibus Asiae , 1949, Vol. 12, No. 3 (1949), pp. 201-220

[5] B. Klima, Antiquity 28 (no. 109),4 (1954);

[6] PAMELA B.  VANDIVER, OLGA SOFFER, BOHUSLAV KLIMA, AND JIRl SVOBODA  The Origins of Ceramic Technology at Dolni Vestonice, Czechoslovakia, Science New Series, Vol. 246, No. 4933 (Nov. 24, 1989), pp. 1002-1008 (7 pages) 24 November 1989, Volume 246,’ pp. 1002-1008

[7] KRÁLÍK, MIROSLAV, VLADIMÍR NOVOTNÝ, and MARTIN OLIVA. “FINGERPRINT ON THE VENUS OF DOLNÍ VĚSTONICE I.” Anthropologie (1962-) 40, no. 2 (2002): 107–13. 

immagini

Venere di Dolni Věstonice Moravian Museum – Brno.
Crediti Foto "Petr Novak, Wikipedia"

Riproduzione geografica ad acquerello e localizzazione del sito di Dolní Věstonice a sud della città di Brno – Moravia, Repubblica Ceca

Riproduzione ad acquerello dello schema dei forni rinvenuti
Acquerelli di Rosalba Di Chiara

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